A colloquio con Giuseppe Lana, l'artista dell'opera vandalizzata e che ha diviso politici, critici e gli stessi artisti.
Intervista di Stefania Cordone
Che spesso l’arte contemporanea faccia discutere è forse l’unica cosa certa che su di essa si può dire. Tutto il resto - specie ai profani - risulta un pò sfuggente, sfumato, un terreno scivoloso su cui risulta facile cadere e farsi male. Ma a doverci camminare su, cercando di mantenere un equilibrio, non sono soltanto gli addetti ai lavori, ma tutti quanti, compresi quelli a cui non interessa questo mondo.
Le discussioni e le polemiche hanno sempre accompagnato le riflessioni che l’arte avanzava. Famosi gli scontri nei saloni parigini in cui gli impressionisti che oggi osanniamo erano derisi e rifiutati. Ma fino a lì le dinamiche erano quantomeno gestibili. Le discussioni orbitavano nei circuiti stabiliti: i musei, le gallerie, i bar deputati. Oggi invece (da un bel pò in verità) l’arte rompe le barriere, scavalca i confini soliti, irrompe nella vita di chiunque, anche non richiesta.
Questo crea più di un corto circuito e scatena situazioni non sempre prevedibili cui non si è del tutto preparati.
Ma forse è proprio questo il bello.
Perché se tutto accadesse come da copione non ci sarebbe quel "valore aggiunto" imprevisto, il "contributo" altrui inatteso, talvolta essenziale per innescare un Caos di situazioni possibili. E a sua volta il caos è essenziale per distruggere quelle forme di ripetizione sicure e confortanti in cui a volte ci rintaniamo inconsciamente o, in forma collettiva, in cui si rifugia lo status quo delle varie oligarchie sociali.
A proposito di caos, di situazioni più o meno prevedibili e gestibili, quello che qui vogliamo fare è parlarne con un artista che si è trovato di recente al centro di un atto vandalico che ha coinvolto la sua opera, Crossover, realizzata a Palermo per BAM - Biennale Arcipelago Mediterraneo.
Stiamo parlando di Giuseppe Lana, artista catanese e amico di lunga data, che noi di PUTIA abbiamo contattato in questi giorni per scambiare quattro chiacchiere non esaustive e porre a lui alcune domande.
S. - Mi è sempre piaciuto pensare che quando un’artista conclude un’opera la lascia al mondo come creatura che ha acquisito una sua autonomia ormai separata dal creatore. Essa prende vita e tutto ciò che le si avvicina la contamina - che ci piaccia o no - di nuovi contenuti che sono tutti validi in ragione della loro stessa esistenza. Nel caso di Crossover è successo qualcosa che associo a questo pensiero seppur in un modo che dà fastidio. Quando progettavi questa opera per Palermo avevi messo in conto che poteva succedere qualcosa di simile?
G. - Non sono molto d’accordo, almeno per quanto mi riguarda. Prima di ogni altra cosa, nel mio caso, il lavoro non è separato da altri realizzati precedentamente. Neanche da me, poiché ne costudisco responsabilità morale ed esecutiva. Quindi non ha una autonomia “totale” ma è il risultato di significati e significanti. Naturalmente, dal momento che un lavoro è esibito, automaticamente è in balia del pubblico, esperto e non, quindi può essere percepito in maniera positiva, dispregiativa o passare del tutto indifferente, ma questo è parte del gioco. Quello che è successo al mio lavoro è capitato a tantissimi artisti. Le opere vengono danneggiate in qualsiasi contesto, dentro i luoghi protetti come musei o gallerie, che in piazze o strade. Onestamente non mi aspettavo tutta questa “attenzione” nei confronti di Crossover, forse un po’ troppa!
S. - La tua è stata anche una sfida alla città?
G. - No! Assolutamente.
S. - Eppure “la ripetizione meccanica e automatica delle 4 barriere crea una tensione che riaccende sempre più la questione tra apertura e chiusura, accoglienza e rifiuto”. Sembra che l'opera stessa si domandasse del proprio destino.
Mi viene da dire che proprio l’atto vandalico su Crossover ha sottolineato maggiormente questi concetti. Ha sollevato polvere su più livelli. Il vandalismo a Palermo, la strumentalizzazione politica, l’assenza quasi totale di una comunità artistica coesa ecc. Elementi che raccontano una chiusura tra istituzioni e cittadini, e spesso tra cittadini e cittadini, su più livelli. Siamo quindi all’interno del “ring”. Si discute e ci si scontra su vari argomenti. Possiamo dire che questo atto vandalico è stato una sorta di Battesimo dell’opera?
G. - L’atto vandalico in sé rimane un atto vandalico. Il vero motivo di questo gesto mi è sconosciuto. Tante cose sono state dette. Forse è stato un atto di rabbia, forse semplicemente una stupidata fatta per noia. A riguardo, si sono innescate diverse opinioni sui social. Alcune di queste sono proprio legate al lavoro ed al suo significato, altre riguardono la “vivibiltà” della piazza dove l’installazione si trova, la sua messa in sicurezza con delle telecamere. Altre opinioni si sono allargate a tutta la città sia da un punto di vista sociale che politico. Tutte questioni importanti e da non trascurare. A Crossover insomma non è mancato nulla, sfortunatamente neanche la strumentalizzazione politica...
S. - Infatti. Ma saltando a piè pari l'imbarazzante performance di Ferrandelli, in merito alla riflessione sollevata dal critico Giusi Diana, sulla quasi totale assenza di "solidarietà artistica" a Palermo (e in Sicilia aggiungerei), tu - vivendo a Londra e avendo la possibilità di confrontarti con un panorama nettamente diverso - cosa ne pensi? Credi sia più grave l’atto vandalico o l’egoismo / invidia tra artisti (come bene solleva il tuo collega e amico Andrea Buglisi)?
G. - Con Giusi Diana, Andrea Buglisi così come con altri curatori, critici ed artisti ci conosciamo da diversi anni. Abbiamo avuto l’occasione di lavorare spesso insieme, conosciamo la fragilità ed i punti di forza del nostro lavoro. Ad ogni incontro non è mai mancata l’opportunità di confrontarsi, analizzare la nostra ricerca ed argomentare i lavori, titoli e tutto ciò che concerne la nostra attività. Da un primo approccio in veste di colleghi, negli anni la nostra relazione è diventata amicizia. Ad ogni modo, dietro ogni dibattito, non è mai mancato il rispetto per le nostre diverse oppure opposte opinioni. Non credo che il loro sia stato solo un gesto di solidarietà, ma qualcosa di più, un senso comune di appartenenza. Non hanno difeso me, hanno difeso il Nostro lavoro. Sulla questione geografica, per diretta esperienza posso dire che da Palermo a Londra, da Berlino a Catania gli artisti lavorano duro per raggiungere i propri obbiettivi e questo può comportare competizione e frustrazione. Dal momento in cui ci sono due o più individui nello stesso settore la competizione è inevitabile.
S. - In una conversazione su Facebook, sulla questione se risistemare o meno l’istallazione, rispondi così: "egoisticamente, personalmente, lo avrei lasciato a terra. Ma poi ho pesato che non sarebbe stato corretto. Tante persone hanno lavorato duro per la riuscita di Crossover e di tutte le opere coinvolte per BAM. È stato un lavoro di squadra, ed anche nella sua rimessa in sicurezza si è ragionato come un team. Quindi abbiamo pesato che per rispetto di chi ha investito il suo tempo, per tutti coloro che hanno visto il lavoro, per tutti coloro alla quale è stata sottratta l’opportunità di vedere il lavoro, credo che sia corretto dare vita a crossover."
Mi piace molto l’approccio collettivo. All’interno del sistema dell’arte è un modus facendus esemplare. Tuttavia - mi permetto di riprendere una mia convinzione posta già in alto - in virtù del fatto che l’opera conclusa e istallata non appartiene più all’artista o al team che l’ha realizzata, ma alla piazza, non sarebbe una dimostrazione di chiusura re-istallarla esattamente com’era? Sarebbe come non tenere conto della risposta della piazza.
G. - Si, ho risposto cosi come da te riportato. Credo che quando si lavora insieme ad altre persone è importante tenere conto del gruppo. Alla realizzazione di Crossover hanno partecipato un bel numero di persone, oltre al team della Fondazione Merz ed ai curatori della Biennale, tante altre persone dietro le quinte hanno contribuito a questo progetto, anche economicamente. Ma soprattutto, sotto un'incessante pioggia, un enorme contributo è stato quello dei tecnici che hanno lavorato no stop all’installazione delle alzabarriere per essere pronti per l’opening. Per rispetto al loro impegno e per rispetto dell’opera stessa abbiamo ritenuto importante ripristinare l’opera danneggiata. L’opera non appartiene alla piazza, è "ospitata" in una piazza. Si decide di mettere in esterno un lavoro proprio per non confinarlo all’interno di musei o palazzi, dando così l’opportunità anche al semplice passante di fermarsi ed osservare, se interessato. Inoltre, in questo caso, l’atto vandalico non è stata una rivendicazione da parte del pubblico, di una comunità, ma è stata l’azione di qualche individuo, forse. Quindi, questo atto non giustifica e non si appropria di nulla se non dell’azione stessa. Ed è per questo motivo che abbiamo deciso di ripristinare l’opera, farla funzionare fino alla conclusione della manifestazione, anche se qualcuno vorrebbe il contrario.
S. - Durante Manifesta12, molti hanno avuto l’impressione che l’arte contemporanea fosse sbarcata a Palermo tronfia e arrogante in barba a chi certe cose non le capisce. Chiaramente è una semplificazione ingiusta e anche scorretta a mio avviso. Però è anche vero che la verità delle cose non sta sempre e solo in se stesse ma anche nel modo in cui le si percepisce. Il fatto che ci sia molta gente che sente come “estranea” questa tipologia di interventi, è un segnale che bisogna tenere in considerazione se ciò che si cerca è il dialogo e l’abbattimento di muri. Tu cosa ne pensi?
G. - Manifesta12 è stato un’altro momento importante per Palermo. Negli ultimi anni Palermo ha ospitato importantissime rassegne culturali legate al contemporaneo, alcuni di passaggio come Manifesta, biennale europea attiva dagli anni ’90, o altre che hanno scelto Palermo come base operativa, vedi BAM - biennale aricpelago mediterraneo alla sua seconda edizione in città. Non discuto sul fatto che a qualcuno non siano piaciute talune opere, o alcuni progetti, ognuno ha libertà di seguire i propri gusti, ed onestamente neanche mi preoccupo più di tanto. Una manifestazione culturale, così come un’opera, non potrà mai soddisfare le diverse esigenze del pubblico. Ad esempio, sempre in relazione al pubblico, proprio durante Manifesta12 a Palermo, sono stato coinvolto in un'altra spiacevole offensiva. Qualcuno ha malinteso il mio lavoro ralizzato per la biennale scatenando il solito “teatrino” sui social. A causa di questo malinteso, un gruppo di persone si è sentito in dovere di denunciarmi tramite avvocati. Per fortuna, il tutto si è risolto a mio favore poichè le motivazioni che avevano spinto queste persone erano del tutto infondate. Riguardo la tua domanda, credo che tra ciò che si percepisce e la realtà dei fatti ci sia un abisso. Non nego che anch’io mi trovo in difficoltà nel capire certi “codici”, ma sto ben attento a sentenziare se non conosco l’argomento.
S. - Un rapporto un po' complicato quindi il tuo con Palermo...
Ma in una situazione ideale, con spazi, risorse e tempo a disposizione, tu, anche in quanto curatore dello spazio BOCS a Catania, cosa faresti per abbattere i muri che separano le persone e le istituzioni dall’arte contemporanea? Su che binari pensi sarebbe importante muoversi?
G. - Un rapporto complicato? Non più di tanto (mentre ride)... Ritengo che Palermo sia un buon laboratorio, dove personalmente lavoro bene. Non penso che possano esistere situazioni ideali, ma è importante il tipo di approccio, il quale deve essere perlomeno costruttivo. Il BOCS potrebbe essere un esempio così come tanti altri spazi-progetto sparsi ovunque. Io non sono un curatore, né il curatore del BOCS; mi occupo, insieme a Claudio Cocuzza, della gestione dei progetti e di tutto ciò che concerne l'attività, le spese, il supporto a chi è coinvolto di volta in volta in una mostra. In effetti, è la sua peculiarità: non c'è nessun team curatoriale a gestirlo. In undici anni di attività, alcuni artisti e curatori sono diventati parte attiva, aiutandoci nello sviluppo dei vari progetti. Ed è così che curatori ed artisti hanno l’opportunità di sviluppare le loro ricerche con il supporto di altri colleghi. Peculiare è dove il BOCS è situato: in un quartiere “caldo” di Catania, dove la gente del luogo non aveva mai avuto nessun contatto con attività del genere. Il mio approccio con il luogo è stato del tutto naturale, spontaneo e senza nessuna retorica. La gente del quartiere si è avvicinata a noi e alle nostre "misteriose" mostre con curiosità e diffidenza. Ho lasciato loro il tempo necessario, ho lasciato che ponessero delle domande alle quali ho sempre risposto con semplicità. Nessuna barriera, soprattutto nessuna arroganza culturale. Ed è così che quel luogo è diventato anche un po’ “il loro luogo”. Tante storie si sono intrecciate tra gli artisti in residenza ed il quartiere, tra incomprensioni e netta partecipazione agli eventi. Qualcuno degli abitanti, attraverso il BOCS, è stato coinvolto in progetti esterni, esponendo le loro “opere” in contesti internazionali. Sentirsi integrati, inclusi nei contesti a loro sconosciuti prima, è stato la migliore arma per non creare disparità, quel distacco che, oggi più di prima, la nostra struttura sociale ha messo in atto: l’algoritmo dell’inganno.